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Un piccolo contributo . . leggendo qua e là . . scritti di Maurizio Canauz

 Taylorismo e Fordismo

Questo abbinamento tra i principi di Taylor e l’applicazione fattane da Ford mi permette di sottolineare come, per quanto spesso sovrapposti, taylorismo e fordismo rappresentino due fenomeni diversi.

Il taylorismo, infatti, riguarda specificatamente l’organizzazione del lavoro, suo vero ed unico interesse di analisi e di studio, mentre il fordismo ha una influenza diretta sulla società, “esce” quindi dal cancello della fabbrica per entrare in un mondo più vasto.

 

Questo avviene sia aumentando l’offerta di prodotto spesso a prezzi più contenuti, sia aumentando i salari e quindi la possibilità di acquisto degli operai nel frattempo diventati più efficienti.

Come nota Crouch: «Prodotti sofisticati come le automobili entrano nel potere di acquisto di persone dal salario modesto e, nel caso queste persone lavorassero proprio nell’industria con produzione di massa, i loro salari erano meno bassi rispetto al passato.»

Inoltre il fordismo ebbe il destino (fortunato) di svilupparsi assieme ad una teoria economica, quella keynesina, che nel contempo lo favoriva e né sfruttava le potenzialità positive in chiave sociale

Scrive a tal proposito Crouch: «La gestione keynesiana dell’economia era coerente con la produzione di tipo fordista dal momento che stabilizzava il ciclo economico e infondeva fiducia sia alle imprese che potevano investire in costosa tecnologia per la produzione di massa, sia ai lavoratori, che acquistavano i beni e quindi stimolavano un ulteriore aumento della produzione. In più la politica keynesiana imponeva ai governi di gestire bilanci ingenti cosicché le loro iniziative di stimolazione o contrazione della domanda sarebbero state sufficientemente potenti da influenzare l’andamento della intera economia.»

«Gli esperti di politica economica e i sociologi della scuola fordista hanno quindi accolto nella loro elaborazione concettuale sia la gestione keynesiana della domanda sia lo Stato Sociale moderno, cosicché il fordismo si traduce nell’illustrazione di un intero ordine politico – economico, non limitandosi a un metodo di produzione di automobili.»

Si ha, dunque, una netta separazione tra ciò che è (solo) una teoria e una tecnica per produrre di più e meglio: il taylorismo, e ciò che è un sistema produttivo con una forte influenza sulla società e sul suo stile di vita: il fordismo.

Di conseguenza, essendo oggetto precipuo della mia analisi e del presente scritto l’organizzazione del lavoro, non posso che focalizzare la mia attenzione sul taylorismo lasciando il fordismo sullo sfondo come esempio del rapporto tra mondo industriale e società.

Ritornando pertanto al taylorismo mi sembra corretto evidenziare come con il trascorrere del tempo crebbero le critiche a questa teoria

Critiche che a volte assunsero anche toni assai aspri.

 

Dal punto di vista marxista si sottolineò, ad esempio, come questo tipo di organizzazione non arrecasse realmente nessun vantaggio ai lavoratori ma aumentasse solamente lo sfruttamento degli operai con carichi di lavoro maggiori e con una maggiore alienazione dei lavoratori.

Elton Mayo appuntò invece la sua critica agli aspetti motivazionali.

Per Taylor l’unico vincolo umano nei ritmi di lavoro è costituito dalla resistenza fisica ad uno sforzo prolungato. In questa direzione si mossero le prime ricerche sul campo.

Tuttavia, non senza una certa sorpresa, da parte dei ricercatori ci si rese conto che gli studi sulla fatica mostravano che essa era associata non solo allo sforzo fisico ma anche al fenomeno della monotonia e che entrambe provocavano un rallentamento dei ritmi lavorativi ed un abbassamento della soglia dell’attenzione.

A seguito degli studi di tre scienziati inglesi, Wyatt, Fraser e Stock, si diffusero le prime osservazioni in merito alle modalità per risolvere o attenuare il problema provocato dai due fenomeni congiunti.

Gli studiosi ipotizzarono alcuni metodi che, per la prima volta, attribuivano importanza anche all’aspetto relazionale di ogni singolo lavoratore.

A differenza di quanto postulato da Taylor si proponeva, infatti, di svolgere più attività, durante uno stesso turno, dotate di senso compiuto e di cui il lavoratore doveva poter prendere coscienza.

Gli operai avrebbero dovuto lavorare in postazioni che non favorissero l’isolamento, ma la formazione di gruppi spontanei.

Inoltre dovevano essere introdotti periodi di riposo e ripristinata la retribuzione a cottimo.

Elton Mayo realizzò esperimenti similari e dai loro risultati iniziò a trarre la considerazione dell’importanza della natura sociale e relazionale dell’individuo anche nel luogo di lavoro.

Aspetto questo che comportava una attenta riflessione sull’osservazione della rilevanza delle motivazioni e del bisogno di sicurezza insito in ogni lavoratore.

Tali evidenze necessariamente trasformavano l’azienda da apparato esclusivamente tecnico in un sotto-sistema sociale più flessibile ed equilibrato.

L’esperimento più celebre fu quello del 1924 presso le Officine Hawthorne dello stabilimento della Western Electric Company situate in un sobborgo di Chicago.

In questo stabilimento fu avviato un programma di ricerche sperimentali sul grado di connessione esistente tra illuminazione e rendimento.

Dopo una serie di rilevazioni fatte basandosi sul livello di produttività raggiunto in diverse condizioni d’illuminazione, i risultati si rivelarono inaspettati e il rapporto tra le due variabili (produttività e illuminazione) si mostrò così anomalo ed irregolare da far pensare all’esistenza di una ulteriore variabile.

Variabile che fu individuata nel cosiddetto “fattore umano”, ovvero il complesso dei fattori psicologici latenti che condiziona il comportamento manifesto dei soggetti.

La dimostrazione dell’esistenza del “fattore umano” si ebbe nella rilevazione di un effetto particolare che fu poi denominato “effetto Hawthorne”.

L’effetto Hawthorne consisteva nel comportamento che i lavoratori, consci di essere soggetti ad osservazione, mettevano in atto.

Solo per il fatto di essere osservati vi era oggettivamente un miglioramento delle prestazioni lavorative e di conseguenza un aumento della produttività.

Le trasformazioni positive rilevate non sarebbero derivate tanto dagli effettivi miglioramenti delle condizioni lavorative, ma dagli esperimenti stessi.

Questo comportava una importante conseguenza teorica su cui Mayo pose la sua attenzione.

A differenza di Taylor, Mayo sosteneva che, per ottenere migliori risultati produttivi, non si doveva concentrarsi solo sulla retribuzione, ma sull’intero contesto lavorativo.

Taylor e Mayo avevano lo stesso obiettivo e cioè quello della massima produttività, ma per raggiungere lo stesso scopo consideravano rilevanti fattori diversi.

Dopo gli studi di Mayo le critiche al taylorismo si fecero sempre più pressanti e diffuse, ma ciò non impedì al taylorismo di diffondersi (a volte anche sull’onda della ricostruzione post –bellica).

Di fatto la teorizzazione di Taylor, per quanto spesso ritenuta inadeguata o passibile di forti disapprovazioni, trovò una applicazione molto ampia in tutti i paesi industrializzati per un lungo periodo (e forse anche ora si può considerare come il sistema maggiormente diffuso nelle realtà produttive medio – piccole).

Piccole modifiche intervenute non ne intaccarono mai la struttura d’insieme e principi fondamentali.

Di fatto ci si muoveva dentro il sistema taylorista che rimaneva, sempre e comunque, il paradigma di riferimento con cui confrontarsi, anche solo per criticarlo ferocemente.

Il nucleo centrale della teoria non si modificava.

Come postulato da Imre Lakatos sembrerebbe esistere un nucleo fondante della teoria tayloristica che non è mai intaccato dalle critiche e un certo numero di ipotesi aggiuntive che permettono di dedurre previsioni controllabili scientificamente. Lakatos chiama l’insieme di queste ipotesi “cintura protettiva” del programma, perché è su queste ipotesi che gli studiosi impegnati a lavorare entro un certo programma di ricerca “dirottano” il modus tollens (la falsificazione) cercando di risolvere i problemi del programma stesso senza abbandonare le ipotesi del “nucleo”. Dunque alcune delle ipotesi che fanno parte della “cintura protettiva” vengono accantonate e sostituite nell’avvicendamento delle diverse versioni del programma. Ma il nucleo, l’essenza, resiste.

Secondo questi autori il fordismo non era inevitabile, ma fu una delle possibili scelte (a loro avviso non la migliore possibile). L’alternativa era quella della specializzazione flessibile, che essi individuano nelle piccole imprese italiane e in quelle artigiane in Germania e, nell‟800, in Francia.

Specializzazione flessibile che appare oggi essere una via estremamente valida per affrontare i nuovi problemi produttivi che interessano le imprese.

Secondo questi studiosi, infatti, le tecnologia informatiche riuniscono progettazione e produzione e richiedono lavoratori sempre più professionalizzati (i conduttori di sistema), escludendo al contempo dalla fabbrica i meno qualificati e le mansioni obsolete.

Questo almeno fino agli anni settanta del secolo scorso.

 

Un mio piccolo contributo . . . leggendo qua e là . . . scritti di Maurizio Canauz

    Giorgio Andreani

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