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Il Toytismo

Un mio piccolo contributo . . . leggendo qua e là . . . Maurizio Canauz

Sebbene già negli anni 1970 autori quali Kern e Schumann iniziano a sostenere il superamento del taylorismo e del fordismo postulando che fosse ormai prossima la fine della divisione del lavoro, grazie soprattutto all’introduzione delle tecnologie informatiche, in realtà fu solo negli anni ‟80 che si iniziò concretamente a mettere in discussione queste forme organizzative con l’introduzione del cosiddetto modello giapponese.

Tale modello nato in Giappone è stato poi adattato, in poco tempo, da molte grandi aziende occidentali per fronteggiare le nuove sfide del mercato con la convinzione che sarebbe stato di ausilio nel migliorare: organizzazione, efficienza e produzione.

Il nucleo della teoria taylorista venne pesantemente intaccato e il suo modello fu soppiantato da una nuova teoria, almeno in apparenza, più efficace e maggiormente incentrata sull’individuo.

In altre parole si proponeva una nuova teoria, almeno in via teorica, più antropocentrica.

La novità del modello consiste in una serie di organizzazioni che consentono di ottenere una produzione flessibile e di alta qualità in misura nettamente superiore a quella ottenuta dalle aziende tradizionali attraverso l’innovazione tecnologica.

Quelle del modello giapponese sono soluzioni organizzative che non si limitano alla sfera produttiva ma che investono l’intera strategia d’impresa. Per questo motivo il modello giapponese porta non soltanto a riformulare in modo diverso dal passato la questione del superamento del taylorismo ma rappresenta un passo fondamentale nella costruzione di un regime di produzione post – fordista.

Ma come è nato questo modello?

Per scoprirlo bisogna fare qualche passo indietro nel tempo fino a prima della metà del secolo scorso.

Alla fine degli anni ‟40, infatti, la Toyota Motor Company, industria dove si svilupperà il nuovo modello organizzativo, era un’entità assolutamente marginale, pressoché invisibile nell’affollato mercato dell’auto dominato dai giganti americani.

Qualche dato può aiutare comprendere meglio la sua marginalità.

Il numero di vetture prodotte complessivamente nei trent’anni della sua attività industriale non raggiungeva neppure la metà di quella immessa “in un sol giorno” dallo stabilimento FORD di Rouge.

La Toyota produceva infatti 2685 automobili in un anno la Ford 7000 in un giorno.

A questo dato va, inoltre, aggiunto che era noto, tra i produttori di autovetture, che Toyota era afflitta da gravissimi problemi di sopravvivenza.

La sua quota di mercato era minima e limitata ad alcuni interstizi lasciati dalle produzioni di massa; i capitali erano scarsi; il macchinario vecchio ed inadeguato; gli spazi fisici dello stabilimento estremamente ristretti.

Secondo i criteri fordisti della produzione di massa fabbricare automobili in quelle condizioni non poteva che essere fallimentare.

Un secondo dato può aiutarci a comprendere meglio la drammaticità della situazione.

Ancora nel 1950 gli 11706 autoveicoli (la maggior parte autocarri) che costituivano la sua intera produzione, sparivano di fronte ai 4 milioni di auto prodotte dalla General Motors, o agli oltre 2 milioni della Ford.

Una situazione assolutamente deficitaria dalla quale non era logico pensare di uscire.

Ma come scrive James Hillmann: ognuno ha un suo destino.

Fortunatamente per Toyota nel suo destino era previsto l’incontro con un uomo che aveva le capacità e la creatività per modificarne radicalmente la struttura organizzativa, invero favorito in questa sua opera dalla situazione in cui verteva l’impresa, e dalla conseguente poca resistenza al cambiamento esistente.

L’uomo in questione si chiamava Tajichi Ohno.

 Taiichi Ohno (Dairen, Manciuria, 29 febbraio 1912 – 28 maggio 1990) è stato un ingegnere giapponese specializzato in meccanica, è considerato il padre del sistema di produzione attuato nell’azienda automobilistica Toyota: il Toyota Production System, Ha scritto diversi libri sul sistema, tra cui il più noto è Toyota Production System: Beyond Large-Scale Production. All’inizio era un dipendente della fabbrica di telai della famiglia Toyota in seguito passò al settore automobilistico nel 1939, dove fece carriera fino a diventare membro del consiglio esecutivo e vicepresidente.

Taiichi Ohno prendendo atto delle immense difficoltà della sua azienda decise di tentare un’altra via, una diversa forma produttiva ed organizzativa assai differente da quelle fino ad allora adottate.

Abbassare il punto di profitto dall’economia di scala tipica delle produzioni di grande serie, per passare ad un’economia di flessibilità basata su produzioni di breve serie. Cercò così di adottare una politica economica che tendeva a trasformare i vincoli in risorse.

Per l’ingegnere giapponese si doveva abbandonare la pratica di allestire i macchinari per produzioni destinate a rimanere uguali per settimane e mesi, e si doveva adottare la pratica di cambiare frequentemente gli allestimenti (set-up) in modo da produrre lotti brevi o brevissimi inseguendo anche le più piccole opportunità di mercato.

Se nelle fabbriche tradizionali gli allestimenti richiedevano diverse ore di lavoro, le variazioni quasi giornaliere di produzione imponevano che il tempo per gli allestimenti si riducesse a non più di un’ora.

Quest’obiettivo fu raggiunto grazie alla sola risorsa abbondante in Toyota: la perizia e la dedizione delle maestranze.

La pratica degli allestimenti veloci provocò ripercussioni a catena sull’intera organizzazione produttiva. Per prima cosa si superò la tradizionale distinzione tra gli operai addetti all’allestimento dei macchinari e gli operai addetti alla produzione, anche questi ultimi dovevano imparare ad allestire le macchine e in questo intento furono aiutati sia dall’impegno degli interessati sia dalla pochezza teologica e semplicità dei macchinari stessi.

Gli allestimenti veloci risultarono congruenti anche con un altro grande vincolo della Toyota, quello di disporre di pochissimo spazio per i magazzini. Il frequente cambio di produzione faceva venir meno il bisogno di accumulare grandi riserve di materiale da lavorare, ma imponeva di allestire un sistema di trasporti così perfetto da garantire consegne limitate di materiale “giusto in tempo” per essere lavorato.

Si ottennero così decisivi vantaggi.

Il primo vantaggio derivava dal fatto che la produzioni di lotti piccoli e diversificati permetteva a Toyota di rispondere alle variazioni di mercato e alle richieste personalizzate dei clienti con un tempismo e una flessibilità sconosciute alle fabbriche che producevano grandi serie.

Il secondo vantaggio si realizzò osservando che la produzione a piccoli lotti permetteva un controllo della qualità estremamente più efficace di quello ottenuto nella produzione di massa.

Si constatò, in particolare, la convenienza di fermare il flusso produttivo per eliminare immediatamente i difetti scoperti, piuttosto che lasciar scorrere il flusso per intervenire sui difetti a fine linea, come prescriveva il modello fordista.

Il modello di produzione che ne risultò era totalmente alternativo a quello fordista.

Tra gli anni 1950 e 1970 ottenne successi così grandi da far diventare Toyota una delle più importanti e innovative imprese automobilistiche del mondo.

Anche in questo caso alcuni dati possono meglio evidenziare, come, grazie all’opera di Ohno, ci fu uno sviluppo produttivo eccezionale.

Nel 1950 ogni dipendente Toyota riusciva ad assemblare in media non più di due veicoli all’anno, con un livello di produttività non superiore a quello raggiunto nel 1930, ma già nel 1960 tale rapporto era salito a 14,8 e nel 1970 a 19,4.

Da un confronto realizzato nel 1987 tra lo stabilimento di Framingham della General Motors e la fabbrica di Takaoaka della Toyota, risultò che, mentre nello stabilimento americano si lavorava con quantità di scorte immagazzinate pari a due settimane di lavoro (e con costi di magazzinaggio proporzionali), alla Toyota lo stoccaggio non superava le due ore.

Negli anni novanta la Toyota era in grado di far uscire annualmente dalla propria catena di montaggio circa 32.000 modelli diversi, con un livello di personalizzazione del prodotto altissimo.

Il tempo necessario che trascorreva tra l’ordinazione di un prodotto personalizzato che partiva da un cliente presso un concessionario Toyota e l’uscita dalla fabbrica del prodotto finito non superava i due giorni.

Il tempo di progettazione di un nuovo modello, infine, si aggirava in media sui due anni (contro i quattro delle industrie occidentali).

Ciò che maggiormente differenziava il toytismo dal taylorismo era, soprattutto, la differente filosofia produttiva che vi era alla base e le differenze che derivavano dal rapporto di questi sistemi produttivi con il mercato.

Il toytismo è un sistema produttivo concepito per condizioni di crescita lenta, o nulla.

Erano queste, d’altra parte, le condizioni nazionali del Giappone: un paese esattamente agli antipodi rispetto agli Stati Uniti.

Giappone che, a differenza degli Stati Uniti, dal punto di vista geo-politico era costretto in spazi limitati, angusti con esigenze fortemente articolate.

Condizioni che, con il tempo, sono diventate le condizioni del mercato mondiale dell’auto soprattutto dopo lo choc petrolifero.

Il problema cruciale, per ogni direzione d’impresa, divenne allora quello di sopravvivere, realizzando una costante riduzione dei costi senza aumentare la scala produttiva, anzi riducendola e differenziandola, rivoluzionando radicalmente il rapporto produzione-mercato.

Con uno slogan si può affermare che non è più la fabbrica a fare il mercato, ma è questo (il cliente) a determinare la struttura della produzione e le scelte produttive.

Se nel sistema fordista il potere di decisione stava saldamente al vertice della catena produttiva, nel toyotismo la facoltà di decidere passa ad un’entità che è posta esattamente alla fine del processo lavorativo: il cliente.

La fabbrica deve seguire, infatti, ogni “repentino cambiamento d’umore”, deve attrezzarsi per una pratica occasionalistica, misurata sul tempo breve e brevissimo, capace di mutare l’organizzazione del lavoro, l’organico delle squadre, le disposizioni delle macchine a seconda del volume produttivo e del tipo di merce richiesta.

Tutto questo presuppone una rivoluzione organizzativa diretta a realizzare economie di spazio e di tempo. Occorre procedere ad una feroce riduzione degli sprechi organizzativi: i tempi morti di magazzinaggio, con gli enormi spazi occupati da semilavorati “fermi”, le sfasature temporali tra commissione e produzione, tra produzione e consegna, le lunghe operazioni necessarie per la sostituzione degli attrezzi, devono sparire.

 

 

 

La fabbrica deve essere snellita (lean production) e sincronizzata.

In questa ottica assume particolare rilevanza l’attenzione nel limitare al massimo gli sprechi

Niente scorte e magazzinaggio, niente difetti, conflitti, tempi morti di produzione, di attesa per il cliente, ed infine, niente burocrazia e comunicazioni inutili.

Tutto questo è evidenziato e riassunto dalla seguente figura:

MUDA

  1. Nessun difetto
  2. Niente eccessiva produzione
  3. Nessun bene in attesa di utilizzazione (scorte)
  4. Nessun Lavoro non necessario (sprechi di processo)
  5. Nessun spostamento di persone non necessari (movimenti)
  6. Nessun trasporto di beni non necessario
  7. Niente attese (tempo)

Tale risultato è stato facilitato dalle notevoli capacità organizzative giapponesi nonché dall’introduzione di tecnologie flessibili a elevato contenuto elettronico che hanno permesso di aggirare ostacoli (tecnici) connessi alla rigidità della tecnologia meccanica.

Inoltre per raggiungere i migliori risultati si è cercato di rendere maggiormente partecipi i lavoratori al processo produttivo.

Se il taylorismo si basa, soprattutto, sui una netta separazione dei soggetti produttivi e chiede al lavoratore, come ho sottolineato anche in precedenza, solo una applicazione corretta delle operazioni dovute e comandate senza alcuna partecipazione intellettiva, al contrario la teoria della fabbrica integrata presuppone l’idea di una comunità di fabbrica unificata ed omologata, in cui il lavoratore deve infondere (consapevolmente e volontariamente) la propria intelligenza nel processo lavorativo, coniugando funzioni esecutive con prestazioni di controllo e di progettazione, segnalando i difetti in tempo reale e partecipando direttamente alla ridefinizione della struttura stessa del processo lavorativo in rapporto alle variazioni della domanda.

Tra lavoratori/operai e direzione d’impresa corre una continuità culturale, esistenziale, un comune sentire che non ammette fratture.

La fabbrica integrata si basa sull’appartenenza, intende costituire un’identità collettiva fondata sul territorio di fabbrica coincidente con l’universo dell’impresa e cerca costantemente di acquisire fedeltà e disponibilità da parte dei lavoratori.

Ciò comporta, almeno teoricamente, una necessaria collaborazione (volontaria) dei dipendenti.

Il conflitto viene bandito e il senso di appartenenza esaltato.

Tale concezione, che ben si adatta alla cultura giapponese, rimane fondamentale per il successo di questo modello organizzativo.

Proprio su di essa si è incentrata parte della riflessione e soprattutto, sulla possibilità di applicare questo modello anche nelle fabbriche occidentali.

 

Un mio piccolo contributo . . . leggendo qua e là . . . Maurizio Canauz

    Giorgio Andreani

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